“Da ragazzino disegnavo sulle copertine dei libri durante le lezioni” è con questo ricordo che Paolo Dongu ci introduce nel suo mondo. Un gesto che tutti i ragazzi fanno durante l’adolescenza, ma a cui viene dato poco peso. E invece, proprio in un gesto così comune di un ragazzo tra i banchi di un istituto tecnico industriale, si nascondeva del talento preziosissimo venuto fuori poco più tardi. “Quasi per caso, durante il servizio militare, ho incontrato un ragazzo che dipingeva e che mi fece vedere le foto dei suoi quadri e così mi incuriosii. Dopo esserlo andato a trovare a Terracina mi avvicinai di più a questo mondo e tentai il mio primo approccio all’arte. La mia prima opera era di ispirazione surrealista, era una reinterpretazione dell’Amleto. Quest’opera poi è stata reinterpretata in tempi più recenti con una nuova concezione dello scorrere del tempo”.
Ci troviamo all’ultimo piano di un palazzo, circondati da diverse opere di Paolo più e meno recenti, ma la sensazione di essere nella casa di un artista ci è venuta incontro già all’ingresso del piano terra, dove diversi dipinti erano custoditi accanto e lungo le scale che portavano in cima, verso quello che potrebbe ricordare una sorta di nido alchemico, il luogo dove Paolo crea le sue visioni: “Sono sempre stato affascinato dall’aspetto figurativo della persona umana. Nei miei quadri esprimo le emozioni attraverso la presenza dell’uomo.” Ed in effetti, per certi versi, non ci si sente soli a casa di Paolo. Tutti i suoi quadri hanno una rappresentazione di tipo umano: un volto, una sagoma, un bambino, un vecchio, una donna. Alcuni di spalle, altri intenti a fissare un punto nel vuoto o un’angolazione precisa, “sarebbe bello avere una macchinetta fotografica integrata negli occhi” ci dice Paolo mentre ci racconta il suo processo creativo “Faccio ricerca tutti i giorni, questo sicuramente, poi però dipingo maggiormente la sera, anche perché ormai mi sono abituato alla luce artificiale e la prediligo a quella naturale”. Paolo Dongu resta seduto circondato dalle sue opere, dalle sue persone portatrici di messaggi “Non ho avuto una base scolastica artistica, mai nemmeno frequentato corsi d’arte. Proprio per questo ho visitato diverse mostre di artisti, anche locali, dove se trovavo qualcosa di particolarmente interessante mi soffermavo a confrontarmi con l’artista stesso”, ci spiega parlandoci delle ultime mostre che ha visitato “Poco tempo fa a Roma ho visto una mostra della Scuola di Londra che mi è particolarmente piaciuta. Più in generale, comunque, i primi stimoli che ho avuto sono stati quelli del surrealismo. Salvador Dalì in primis, Inizialmente ha avuto il suo peso, ma non ero io. Non era il mio modo di vedere l’arte. Mi ha molto impressionato, successivamente, la mostra dell’espressionismo tedesco di qualche anno fa a Venezia. Bacon, per esempio, mi piace perché ha una forza particolare, ma non è nel mio stile Anche Freud mi piace molto ed è anche più vicino al mio stile. Per il resto, l’astrattismo non lo capisco molto, la pittura di getto mi affascina ma non è ancora completamente nelle mie corde”.
Paolo ci mostra le sue ultime tele, quelle ispirate al concetto di paura “tendo a lavorare su tematiche” ci spiega mentre le posiziona davanti ai nostri occhi “La mia ultima ricerca si basa sulla tematica della paura. Adesso sto realizzando questa serie insieme a mio figlio, che quest’anno ha iniziato il liceo artistico.” E mentre ci racconta delle sue ispirazioni ci fa vedere diverse tele, alcune rappresentanti delle maschere appartenenti ad antiche tradizioni di Carnevale “Il sud Italia ha tutta una serie molto variegata di queste maschere, alcune provenienti dal periodo romano e altre anche pre-romano. Le ho viste questa estate ad un evento a Castiglione e ne sono rimasto affascinato. Solitamente, tutte le maschere hanno delle caratteristiche principali che si ripetono. Una di queste è sicuramente la rappresentazione delle le maschere della paura, appunto: è un modo per esorcizzarla”. Ma le paure rappresentate da Paolo sono diverse: la paura della solitudine, la paura del tempo, la paura dell’uomo nei confronti della donna. Ognuna di queste paure interpretata da personaggi e scene diverse, completamente scisse tra di loro eppure in un dialogo continuo senza interruzioni, dote che Paolo forse ha appreso bene durante una delle sue esperienze all’estero: “Qualche anno fa ho fatto un simposio in Ungheria
con artisti da tutta Europa. Era soprattutto una Babilonia linguistica, quindi la comunicazione funzionava attraverso la vicinanza di paese. Una croata capiva la mia lingua, mentre la sua veniva compresa dal Bulgaro che a sua volta veniva capito dall’ucraino. C’era tutta una serie di passaggi per farsi capire dall’altro”.
Mentre discendiamo le scale ci soffermiamo a osservare le opere che incontriamo appese nei vari pianerottoli, finché non arriviamo al piano terra, dove Paolo conserva due opere di cui ci ha parlato precedentemente: la sua primissima opera ispirata al surrealismo e l’opera a cui forse è più emozionato emotivamente, quella che ritrae un periodo molto preciso della sua vita e rappresenta suo figlio, visto dall’alto “Ci sono alcuni lavori che ritraggono mio figlio e sono sicuramente legato in modo particolare a loro. In particolare, c’è questa che rappresenta mio figlio dipinto su due tele divise, eppure la sua posa indica quasi un voler restare unito”. Paolo ci mostra altre tele – ne ha un’infinità – e opere di diverso genere realizzate in contesti diversi, alcune sono anche temi molto espliciti, ma la naturalezza e la tranquillità con cui ce li spiega basta a renderle per quello che sono: mezzi per comunicare. Nel linguaggio di Paolo Dongu la figura diventa vettore di fili emotivi, spesso anche spinati e difficili da digerire, ma che sanno fare un’azione molto precisa e difficile da concretizzare: arrivare dritte al punto e, in alcuni casi, puntare il dito. Spesso, proprio contro lo spettatore.
Foto a cura di Giuseppe Ritucci
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